Una cosa mai vista prima
di Daniele Manusia
Zlatan ha segnato questo gol in un’amichevole di nessun conto mentre ancora giocava con il Malmoe. C’è un documentario su quel periodo della sua carriera, che doveva raccontare la risalita del Malmoe (appena retrocesso) nella prima serie svedese e che per questo si chiama The Road Back; ma che di fatto è diventato un documentario su Zlatan Ibrahimovic, esploso inaspettatamente con la maglia numero 27.
Ho già scritto più approfonditamente (qui) del documentario, ma è utile dire che in quel momento Ibrahimovic è ancora un giovane di talento problematico che non è detto riesca a farsi strada tra i professionisti. Le difficoltà e i pregiudizi, l’isolamento da cui è dovuto emergere il giovane Ibrahimovic e che hanno fatto da trampolino alla sua voglia di affermarsi ci sembrano un’assurdità a posteriori, pensando a tutto quello che ci saremmo potuti perdere se Zlatan avesse ascoltato chi gli diceva di abbassare la cresta, di passare di più la palla, di fare finta di essere un giocatore normale. Ma bisogna tener presente che quelle persone non avevano mai visto nessuno come Ibrahimovic prima: un punto di vista da cui non sarà più possibile osservarlo, praticamente da quel momento in poi.
La differenza tra il gol scelto qui sopra e altri numeri realizzati in quel periodo*, la fa la presenza a bordo campo del direttore sportivo dell’Ajax, Leo Beenhakker, venuto a misurare il valore di Ibrahimovic con i propri occhi, prima di acquistarlo. Il gol si vede piuttosto male (colpa del cameraman, anche) ma è tutto nel controllo con cui Zlatan, che riceve palla da centrocampo, salta 3 difensori alzandosi la palla alle loro spalle, sprintando per superarli e poi calciando di collo in porta da dentro l’area di rigore.
* altri numeri realizzati in quel periodo.
Ci sono esempi migliori della capacità di Ibra di manifestare i propri poteri in momenti cruciali ma in questo gol che lo ha rivelato a uno dei più importanti osservatori internazionali, al tempo stesso, c’è qualcosa di Ibrahimovic che è possibile riconoscere solo a posteriori: solo sapendo cosa avrebbe fatto Ibrahimovic negli anni a seguire. Avendo visto tutto quello che abbiamo visto, che è anche tutto quello che non avremmo mai visto se Ibra non avesse usato il proprio talento come angolo su cui piegare la realtà e mettersela in tasca.
Guardando questo gol possiamo credere che Zlatan controlli la palla in quel modo, alzandola volontariamente alle spalle della difesa prima di superare in velocità tre giocatori, solo perché è Zlatan. Sarebbe un gesto troppo controintuitivo e gratuito (allora perché non lanciarsi sempre da solo in profondità?) e personalmente resto scettico, ma se mi chiedo: può il cervello di Ibrahimovic aver letto l’informazione della realtà - la palla che rimbalza leggermente dopo il passaggio del compagno - e aver reagito in maniera così creativa così velocemente? La risposta è: “Certo che può, è Ibrahimovic”. Non posso esserne certo, ma è senza dubbio una cosa che rientra nell’orizzonte delle possibilità di Ibrahimovic.
E c’è un’altra cosa su cui non ci sono dubbi: che la sola persona che più di Beenhakker, in quel momento, poteva sapere tutte le altre giocate che quel gesto conteneva in potenza, era lo stesso Ibrahimovic.
Persino il gol, più famoso, segnato con la maglia dell’Ajax al Nac, è interpretabile correttamente solo alla luce di quel che sappiamo sarebbe venuto dopo. La capacità di improvvisare di Ibrahimovic, però, poggia su una fiducia nei propri mezzi che ha qualcosa di mistico. Nei momenti di vera ispirazione Zlatan non è neanche arrogante, è solo una persona sicura di qualcosa che nessun altro può sapere.
Col passare del tempo il suo talento si sarebbe spogliato di qualsiasi forma di rancore e negli anni quella di Ibrahimovic sarebbe diventata una forma di superiorità imperturbabile (basta guardarlo mentre tira un calcio di rigore per intuire le mura altissime e il fossato con i coccodrilli dietro cui protegge i suoi pensieri). La superiorità di Ibrahimovic è una forma di contemplazione della sua stessa grandezza, Ibrahimovic che medita su Ibrahimovic.
Questa è anche la definizione della sua arroganza, come chiusura a tutto ciò che è esterno al suo stesso talento, la ragione per cui a molti Ibrahimovic non è mai andato giù, per cui anche grandi allenatori come Sacchi, o Cruyff (per nominarne due che non sono Guardiola) non lo hanno apprezzato fino in fondo. Perché il talento di Ibrahimovic non ha bisogno di un contesto ma di un palcoscenico, perché la sua ricerca è totalmente autoriferita.
Il suo unico commento ufficiale dopo l’infortunio è un post su Instagram in cui dice: “Una cosa è certa, deciderò io quando smettere e nient’altro”. Perché non credergli? In fondo, finora, ci ha sempre visto più lungo lui di noi, o no? Volere è potere. Non vale per tutti, ma per Zlatan sì.
«Io sono Zlatan, voi chi cazzo siete?»
di Marco D’Ottavi
A vent’anni io e i miei amici chiamavamo l’erba Zlatan. Avevamo vent’anni e l’onnipotenza che Ibrahimovic aveva portato nel campionato italiano ci sembrava andasse onorata in qualche modo, e che quello fosse un buon modo. Lo svedese era un unicum: ci sembrava che tutto gli riuscisse facile, naturale, che il compito che si era preso di spostare l’asticella più in là gli fosse piovuto dal cielo. Ma non è così: l’onnipotenza non è una caratteristica degli uomini, e per arrivare ad essere Zlatan™, Ibrahimovic ha dovuto lavorare duro dentro al campo, ma anche fuori, nel modo di relazionarsi con la realtà circostante.
Nella prima amichevole giocata con la maglia dell’Ajax, un Ibrahimovic praticamente sconosciuto salta con un elastico il difensore del Liverpool Hencoz. Dopo la partita – un po’ meno sconosciuto – va dai cronisti e dice: «All’inizio andai a sinistra e lui fece lo stesso; poi andai a destra e lui fece come me. Poi tornai ancora a sinistra e lui andò a comprarsi un hot dog».
Per costruire il suo personaggio Ibrahimovic ha dovuto spingersi all’estremo, esagerare il modo in cui vuole essere percepito, prima ancora che con le sue giocate con le sue dichiarazioni. Perché Zlatan™ viene prima di tutto, prima della squadra, prima della diplomazia, prima delle vittorie.
Come quando a 17 anni si rifiuta di fare un provino con l’Arsenal perché «Zlatan non fa provini». Non so se l’ha detto davvero in faccia a Wenger, e se l’ha detto non so se crede davvero a quello che dice, ma Zlatan si trasforma in Zlatan™ per vincere, perché in nessun giocatore personalità e talento sono così sfumate l’una nell’altro fino a formare un’unica armatura. E allora che lo dica, di essere Dio, che non c’è niente da guardare in una Coppa del Mondo senza di lui, che quello che Carew fa con un pallone, lui lo fa con un’arancia (a questa ci credo).
Perché essere onnipotenti è una croce se non ci credi fino in fondo, se non credi che anche dopo un infortunio grave, a trentacinque anni, puoi tornare più forte di prima. Se non ci credi non sei onnipotente, non sei Zlatan™.
La rivelazione bianconera
di Fabio Barcellona
Nel momento in cui è stato deciso di scrivere questo pezzo collettivo su Ibrahimovic, la mente nei suoi percorsi non sempre limpidi è andata a un gol realizzato dalla Juventus in una delle sue prime partite in maglia bianconera. Non è un gol suo, ma di Del Piero, però si dice sempre che bisogna fidarsi del proprio istinto e quindi ho deciso di scrivere di quest’azione, che tra l’altro ricordavo solo vagamente ma nella mia memoria ha avuto il sopravvento su tante altre più famose e determinanti. Ricordavo di un gol della realizzato in trasferta, contro una squadra pugliese, Lecce o Bari, in una partita vinta dai bianconeri per 1-0 sotto una pioggia battente e giocata su un campo bagnato ai limiti della praticabilità. YouTube mi ha aiutato a definire il ricordo: domenica 14 novembre 2004, 12° giornata di andata, Lecce-Juventus 0-1.
È la Juve che ha preso in panchina con grande clamore Fabio Capello dalla Roma, insieme a Emerson e Zebina. Arrivano a Torino anche Fabio Cannavaro dall’Inter e Zlatan Ibrahimovic dall’Ajax. In estate, agli Europei in Portogallo, Ibra ha segnato all’Italia con il suo “scorpione”, ma sembra difficile che, nonostante gol come quello, o come con il Nac, possa trovare subito spazio in un attacco che schiera Trezeguet e Del Piero come probabili titolari. Invece, prima del match di Lecce, Ibra gioca tutte le 15 partite ufficiali disputate tra serie A e Champions League, partendo dalla panchina solo 2 volte e segnando 5 reti. Per un tifoso bianconero non è semplice capire come uno tra i due mostri sacri in attacco possa essere escluso per far posto a un giovane, talentuosissimo certo, ma che fino all’anno prima aveva giocato solo in Olanda.
Poi arriva quest’azione, in una partita banale a Lecce. Camoranesi recupera un pallone e lo consegna ad Emerson. Ibra si apre sul fianco esterno del suo marcatore, Diamoutene, e il centrocampista brasiliano lo serve con una palla alle spalle del difensore del Lecce. Le qualità di Ibrahimovic non ancora così note, ma il difensore commette l’errore di provare ad andare al contrasto fisico: lo svedese controlla il pallone con il destro e fa perno sul corpo di Diamoutene e sul suo piede sinistro per ruotare di 180° superandolo. Poi, su un campo impossibile, Ibra si allontana dal raddoppio con l’interno destro e serve di sinistro, con freddezza, l’assist per Del Piero.
Quando ho rivisto l’azione, ho capito il motivo per cui mi è apparsa in mente per prima, sorpassando altre più spettacolari o importanti: per me un’epifania, il momento in cui mi apparve in tutta la sua chiarezza la grandezza di Ibrahimovic e il motivo per cui Del Piero o Trezeguet potevano stare in panchina a guardarlo giocare.
Un linguaggio alieno
Di Emanuele Atturo
Sono diversi i gol di Ibra che nascono da una scintilla piccola ma così anti-intuitiva da lasciare sbigottiti. Per questo il suo gioco di Ibra non somiglia a quelle opere d’arte che brillano per la purezza delle loro forme ma a quelle che colpiscono per la profondità dell’intuizione da cui sono nate.
In un vecchio pezzo su Orwell - ripubblicato online da Futbologia - si rifletteva sul rapporto tra calcio e intertestualità. Ogni gesto tecnico sarebbe una specie di riscrittura di un testo precedente, che costituisce un canone da cui attingono inconsciamente i giocatori. Per Ibrahimovic - e per pochissimi altri - questa cosa non vale: tanti gesti tecnici di Ibrahimovic nascono praticamente ex novo con lui. La sua carriera è stata una continua forzatura dei campi del “dicibile” del calcio.
Il catalogo di gol di Ibrahimovic capaci di illustrare questo concetto sono tanti, al punto che uno dei termini più ricorrenti nei video YouTube dedicati a lui è “impossible”. Non è stato semplice sceglierne uno. C’era questo alla Sampdoria, dove nel momento stesso in cui l’azione sembrava persa - chiuso da tre uomini, fuori equilibrio - intravede il fascio di luce da attraversare per andare verso la porta. Riguardandolo più volte si può notare l’esatto momento in cui tre uomini si sono fatti fregare dallo stesso gesto.
Ovviamente ci sarebbe anche la rovesciata fuori area all’Inghilterra, che però a me sembra soprattutto uno sfoggio estremo della sua ambizione tecnica. Trovo più incredibile questo gol al Lecce, dove il difensore è andato a chiudergli quasi tutte le possibilità di fare qualcosa di buono, e lui a quel punto ha intravisto uno spiraglio per fare qualcosa di decisivo. Con Ibra in campo nessuna azione può considerarsi finita (il soprannome “Ibracadabra” è indicativo di questa sua capacità di capovolgere improvvisamente il flusso della realtà). L’incarnazione più precisa di questa idea è il gol all’Italia agli Europei.
Per noi fu un gol doloroso, diventato inaccettabile per come è venuto. Ricordo che in Italia si discusse a lungo sull’elevazione un po’ ridicola di Vieri che difendeva il palo. Ma tutti i dettagli di questo gol sembrano piegarsi all’inesorabile di un gesto tecnico così estremo nella sua assurdità. Quando la palla spiove in mezzo all’area Ibra è distante e deve correre un po’ di lato per raggiungerla, Buffon sembra in vantaggio ma lui in qualche modo si frappone tra il portiere e la palla. Poi la rigira in porta con la parte di piede tra tacco ed esterno con cui ha fatto tanti gol. Ibra esulta correndo con chi gli occhi sgranati da pazzo: è uno di quei momenti a inizio carriera in cui è ancora capace di stupirsi di sé stesso, del fatto che sia riuscito a visualizzare la possibilità di segnare. È ridicolo. Bisognerebbe domandarsi quali altri giocatori della storia del calcio avrebbero potuto segnare questo gol: il fatto stesso che era l'unica persona del pianeta a poter segnare quel gol, in quel momento, restituisce un'idea di unicità abbastanza forte.
Un lottatore con la sensibilità di un ballerino
di Alfredo Giacobbe
Zlatan Ibrahimovic ha segnato 16 gol alla sua prima stagione in Italia, con la maglia bianconera. Nel suo secondo anno fu meno prolifico, preso da una battaglia tutta mediatica con la società, rea di non aver ritoccato verso l’alto il suo contratto come aveva promesso. Godeva però della fiducia illimitata di Fabio Capello (che per trasformarlo in un finalizzatore di razza gli ha mostrato le cassette dei gol di Van Basten e che gridava di volergli togliere l’Ajax dal corpo) e guadagnò spesso la titolarità ai danni del totem Del Piero.
Il gol segnato alla Roma il 19 Novembre 2005, il secondo della Juve nel 1-4 finale, è secondo me il primo gol propriamente alla Ibra. La Juve difende un piazzato, Emerson controlla un pallone ai limiti della propria area e serve Ibra con l’esterno piede. Con un pazzesco controllo con l’esterno/tacco del piede, Zlatan si lancia verso la porta: è inutile provare a guardare e riguardare l’azione più volte, da diverse angolazioni, anche al rallenty, per provare a capire se quel primo controllo sia stato eseguito esattamente così com’era stato pensato, o se l’azione sia nata dal caso.
Magari i tifosi della Juventus a quel punto conoscevano già bene le capacità distruttive di Ibra, ma il modo in cui si scrolla di dosso Samuel Kuffour e inchioda il pallone all’incrocio, colpendo con l’esterno del piede destro, quasi di controbalzo, con una leggerezza che si scontra con la velocità della palla che esce dal suo piede, sono un messaggio che nessuno potrà più ignorare.
Il concetto di eleganza che ci ha insegnato Zlatan
di Dario Saltari
Ibrahimovic non è certo il primo giocatore che abbina a una stazza imponente un’agilità e una sensibilità calcistica fuori dal comune, eppure ha ridefinito la nostra idea di eleganza. Un concetto che da sempre associamo a qualcosa di etereo, alla leggerezza, alla compostezza, alla pulizia del movimento; l’opposto della brutalità e dell’imprecisione della semplice forza fisica. Tra i giocatori più grossi quelli considerati eleganti lo erano perché leggeri in rapporto alla stazza, erano eleganti nonostante il loro corpo: si ricollegavano anche loro a un’idea di eleganza incorporea. L’eleganza li riscattava dalla volgarità delle loro dimensioni e della loro forza.
Ibrahimovic, com’è noto, ha attinto la sua idea di eleganza da un universo extra-calcistico, quello delle arti marziali, e più in particolare dal Taekwondo. Questo l’ha portato ad utilizzare il proprio corpo in maniera innovativa: ad esempio usando la suola non per accarezzare il pallone ma per colpirlo in maniera violenta.
Prendiamo quest’azione contro la Lazio. Ibra potrebbe tranquillamente stoppare la palla di petto la palla di Maicon, o girarla indietro di testa. E invece, per farla arrivare sulla corsa di Stankovic, alza la gamba destra ad un’altezza inverosimile per schiacciare poi il pallone con l’esterno e dargli profondità. È un movimento fisico che lascia sbalorditi per forza, coordinazione ed elasticità, ma non si può certo dire che rientri nei canoni classici dell’eleganza. Dopo aver colpito il pallone, Ibrahimovic è andato talmente in alto con la gamba destra che è costretto a staccare da terra il sinistro, e cade a terra di schiena.
È un movimento possibile solo con la testa e, soprattutto, con il corpo di Zlatan Ibrahimovic. Non rimanda a nessuna leggerezza, ad una pratica meno fisica, più incorporea del calcio: anzi, somiglia ad uno sport ancora più fisico (il Taekwondo, appunto, come anche Caressa in telecronaca non può fare a meno di notare). Eppure non si può dire che non sia bello. Che non sia, a modo suo, elegante.
Ibrahimovic è riuscito a domare la fisicità del calcio contemporaneo attraverso l’eccezionalità del proprio corpo, non astraendosi da essa. E l’ha fatto in un modo così originale da diventare artistico, facendoci scoprire un tipo di bellezza che prima di lui non pensavamo si potesse applicare al gioco del calcio.
Avere Ibrahimovic
di Cesare Alemanni
Secondo l’indice Recoba/Ronaldo (per cui all’aumento del talento corrisponde un’equivalente diminuzione della capacità di sfruttarlo e/o dell’integrità fisica del soggetto), Ibra è stato forse il fuoriclasse meno “morattiano” dell’era Moratti. A differenza dei suoi predecessori nel ruolo di salvatori della patria nerazzurra, Ibra è stato di un’efficienza e di una continuità spietata. Qualità che c’entravano poco con l’epica minore della prima età morattiana, tutta affettata signorilità e fragilità mascherata da sprezzatura. Con la sua sfrontatezza, con la sua efficacia a tratti quasi onnipotente, anche solo con la sua stazza, Ibra rappresentava per quell’Inter una catarsi dopo anni di frustrazioni e sfighe e talenti parziali e incompetenze societarie. Esistono migliaia di istantanee per dimostrare questo concetto, ne ho scelte due.
La prima è il gol segnato nel suo secondo derby di Milano, stagione 2006/07. Anche se è comunque meno banale di quanto possa sembrare, non è sicuramente il gol più bello di Ibra all’Inter (anche solo per rimanere ai derby, nel girone di andata di quella stessa stagione aveva compiuto questo mezzo capolavoro su Nesta). E tuttavia è un gol significativo perché è il gol con cui l’Inter ribaltò quel derby, il derby del famoso ritorno di Ronaldo, che addirittura segnò portando in vantaggio il Milan nel primo tempo e ammutolendo gli interisti.
Nell’intervallo, però, Ibra decise che quella partita non si poteva perdere e nei secondi quarantacinque minuti mise in campo una prova di forza e temperamento imbarazzante.
Una delle tipologie di gol più rappresentative dello swag Zlataniano sono quelle specie di rigori in movimento da trenta metri che ogni tanto decide di segnare, con la naturalezza di uno che non li prova ogni partita solo per non rovinare il divertimento agli altri e costringere la FIFA a cambiare le regole del calcio.
Ci sono giocatori da Hall of fame che possono contare al massimo due o tre gol di questo tipo in una carriera, Ibra ne ha segnatiben di più solo nei suoi tre anni all’Inter. Il mio preferito in questo genere è un gol segnato al Palermo.
Lo è per come dimostra la capacità di Ibra di rompere gli equilibri di una partita sullo 0-0 con una cosa tanto brutale nella sua semplicità e per l’esultanza “trallalì-trallalà” (non saprei come definirla altrimenti) con cui celebra il gol.
Ciò che però lo rende davvero speciale è il modo sbruffone, da oratorio, con cui Ibra si aggiusta il pallone per crearsi lo spazio e caricare il tiro ma anche, se non soprattutto, il movimento del terzino del Palermo così lontano dal concepire un colpo del genere da abbassarsi a coprire il corridoio di passaggio. (E va menzionato anche il fatto che quindici minuti dopo Zlatan segnò un altro gol con una punizione forse ancora più potente).
È incredibile siano già passati dieci anni da quella partita, ed è incredibile che Zlatan non abbia vinto una Champions o un Pallone d’Oro nel frattempo nonostante sia stato forse il più grande patrimonio condiviso del calcio degli ultimi venti anni (condiviso nel senso letterale del termine, data la sua carriera da giramondo).
Personalmente lo seguivo e amavo già all’Ajax e persino alla Juve, l’ho adorato ovviamente nella mia Inter, ma, a differenza ad esempio di Ronaldo, non gli ho portato nessun rancore nemmeno quando mi ha spezzato il cuore di tifoso per puntare a una Champions a colpo sicuro con Messi & co. (ovviamente la Schadenfreude alla fine di Barcellona-Inter non ho potuto fare a meno di provarla) e poi, ancora di più, tornando a Milano nel Milan. E se questo infortunio segnerà la fine della sua carriera ad alti livelli si tratterà di una fine triste e beffarda. Un’uscita di scena dimessa per un giocatore così esclamativo, in una serata di Europa League, nell’unica squadra che non è riuscito appieno a far rilucere.
Ibra contro tutti
di Francesco Lisanti
Secondo un aneddoto popolare, i Club Dogo prima di diventare i Club Dogo se ne stavano appoggiati alle macchine a importunare le ragazze che passavano, nella speranza di provocarne i fidanzati e scatenarci una rissa. I più incauti cadevano nella trappola, i più saggi probabilmente se ne tiravano fuori alla maniera della Curva Nord, che nel maggio 2009 si vide azzittire da Ibrahimovic con tanto di dito davanti alla bocca, e arrivò a definirlo «un gesto comprensibile, che ribadisce il carattere di un professionista che non le manda a dire».
Correva l’anno in cui il senso pratico di Mourinho incontrava Zlatan all’apice del suo strapotere tecnico e atletico: l’Inter non era sempre una squadra divertente ma riusciva a raggiungere lo svedese in qualunque zona del campo, spesso ricorrendo ai lanci lunghi dalla difesa, e tanto bastava perché poi ci pensasse lui a creare vantaggi sugli avversari, giocando d’anticipo o saltandoci sopra.
Da questa condizione di isolamento, unita all’insofferenza per i ripetuti insuccessi in Europa, Ibrahimovic ha tirato fuori una versione di sé nevrotica e lunatica, spesso infelice, altrettanto spesso incontenibile. Dopo un’ora di gioco della partita con la Lazio (girone di ritorno della stagione 2008-09) riceve davanti alla difesa, tenta di passare in un corridoio inesistente, si allunga la palla e la regala al portiere. Dagli spalti arriva qualche fischio, Ibra porta il dito alla bocca.
Esattamente un minuto dopo Zlatan sblocca la partita, riportando se stesso in testa alla classifica marcatori e l’Inter a dieci punti di vantaggio sulle inseguitrici. Ma in quel gol c’è soprattutto la voglia di archiviare la contesa tra lui e il pubblico aperta un minuto prima in piena in autonomia, per dimostrare che aveva ragione lui. Nel momento stesso in cui Ibra si gira e punta la difesa della Lazio sta già pensando a come rivalersi dei fischi precedenti.
Dopo aver minacciato il difensore che ha davanti facendolo indietreggiare (Ibra può andare sia sul destro che sul sinistro, questo il difensore lo sa) così da mandarlo fuori equilibrio quando si sposta il pallone verso l’interno, Ibra scarica un collo pieno sul secondo palo che fa segnare 106 sul contachilometri (vale a dire che la palla consuma la sua traiettoria nel giro di mezzo secondo). Lo stadio esplode, Ibra lo zittisce nuovamente, come un minuto prima.
A più riprese Ibra ha detto di considerare l’Italia la sua seconda casa e il campionato italiano il più bello del mondo: «C'è una passione infinita, calda, totale, qualcosa che assomiglia al mio modo di intendere lo sport». Qualcosa che assomiglia molto all’arte di scatenare le risse.
Cosa sarebbe potuto essere Ibrahimovic a Barcellona
di Daniele V. Morrone
from Auraafy1
La parentesi a Barcellona è l’unica crepa nel monolite di successi che è la carriera di Zlatan Ibrahimovic. Se le cose per cui il connubio Ibra+Guardiola non ha funzionato sono abbastanza risapute, è divertente fare l’esercizio opposto: andare a cercare quei momenti in cui l’esperimento sembrava poter funzionare.
In quest’azione Piqué recupera palla in area e fa partire la transizione offensiva correndo in conduzione. Il Real Madrid può difendere con tranquillità, con la difesa schierata. Il Barcellona allora sviluppa la manovra appoggiandosi a Xavi. Qui entra in gioco Ibra: Xavi riceve il pallone orizzontalmente e si guarda intorno per scegliere l’opzione migliore, ma invece di andare sulla diagonale sinistra dove si trova Iniesta (opzione classica) va in verticale per appoggiarsi a Ibra, in grado di proteggere senza problemi il pallone spalle alla porta sulla pressione di Pepe e di ridarglielo con precisione poco dopo. Quando Xavi raccoglie il pallone ecco che i compagni sono riusciti a risalire il campo e si trova quindi con il lato debole a destra libero per poter servire Dani Alves utilizzando Keita come intermediario. Nel frattempo Ibrahimovic si è girato ed è scattato in area per poter raccogliere il cross di Dani Alves con il mancino e segnare il gol della vittoria nel Clásico.
Questo gol di Ibra è tratto dai suoi primi mesi di stagione al Barça. Sono quelli in cui le cose vanno bene, dove i gol arrivano a raffica (11 nel prime 13 partite), in cui sia Henry che Iniesta stanno bene fisicamente e si intravede il motivo per cui Guardiola lo avesse voluto in squadra. Perché Ibrahimovic era disegnato per il Barça che Guardiola aveva in mente al suo primissimo anno come allenatore: quello con Henry a sinistra a dare profondità e Messi a destra a fare Messi, aiutato da una punta centrale attorno a cui sviluppare il gioco.
Guardiola voleva Ibra non solo per via della sua presenza in area quando la squadra accerchiava gli avversari, ma anche per il suo sublime gioco spalle alla porta. Ibra come punta in grado di fare da perno alla manovra in transizione, scambiando palla con le mezzali prima di andare in area. Va anche detto quanto Ibra fosse bravo quando si gioca in verticale nello spazio, un aspetto del calcio del primo Barça di Guardiola spesso sottovalutato.
Il gol al Real Madrid è talmente perfetto nel sintetizzare tutto quello che sarebbe potuta essere l’unione di Ibra e Pep da far quasi male. Non abbiamo visto il talento di Ibrahimovic esaltato a pieno da quella squadra, così come non abbiamo mai visto il massimo potenziale di un Barça allenato da Guardiola con a disposizione una punta di immenso talento.
Il senso del fallimento catalano
di Emiliano Battazzi
Sulla storia di Ibrahimovic al Barça si è detto e scritto già molto ma possiamo sintetizzare dicendo che Ibra in quel momento era il più grande attaccante del mondo e che, però, il gioco del Barça di Guardiola era un sistema di valori sia culturali che calcistici (quelli del settore giovanile in cui molti titolari erano cresciuti) in un certo senso più grandi di lui.
La partita che più di tutte sintetizza questa mancata assimilazione di Ibra nel sistema Barça, è quella contro il Saragozza, nel marzo del 2010.
Nel tridente d’attacco, Pedro deve mantenere l’ampiezza a sinistra, Ibra è la punta centrale e Messi parte dalla destra per rientrare e trovare soluzioni in zona centrale. Il primo assurdo della giornata è il gol di testa di Messi. Sul secondo gol, Messi in area dribbla un difensore e ha l’opzione di servire Ibra da solo al centro; invece dribbla di nuovo lo stesso difensore, e nonostante abbia la possibilità di servire Ibra ancora più solo, tira e segna, scatenando gli applausi persino del pubblico locale.
E poi arriva la sintesi definitiva della stagione di Ibra al Barça: a 15 minuti dalla fine (nel video a 1:12), in una transizione offensiva, Pedro serve lo svedese da solo a centro area. Il passaggio è leggermente lungo, ma Ibra riesce ad arrivare bene sul pallone, calciando poi incredibilmente fuori. Ibra si dispera e sembra dire un’imprecazione in italiano, la regia manda in onda il replay, e poi ritorna in diretta sempre su di lui che cammina ancora a testa bassa.
Nel frattempo però si sta giocando, il Barça ha recuperato palla, e mentre Iniesta e Messi si scambiano il pallone ecco che appare il numero 9 svedese in netto fuorigioco. Messi segna la sua tripletta, e la sintesi è: il Barça non ha bisogno di Ibra. Pedro va a dirgli qualcosa, sembra quasi volerlo rincuorare.
La giornata terribile però non è ancora finita: Messi recupera un altro pallone sulla trequarti e serve Ibrahimovic che è solo. Il passaggio è un po’ strozzato, ma lo svedese prima guarda indietro l’avversario, poi controlla col destro e se la mette sul sinistro: davanti al portiere, nel momento in cui calcia, il corpo è spostato all’indietro. La palla finisce in curva, di parecchio fuori. Poi, di nuovo, lo svedese ha l’opportunità per chiudere la partita: splendido cross di Iniesta dalla trequarti, lui si mette davanti all’avversario che nel tentativo di rincorrerlo frana a terra. Sembra una classica azione da strapotere zlataniano. Invece il pallone in area gli rimane leggermente dietro, e invece di incrociare con il sinistro (o provare anche uno stop), Ibra calcio con un esterno che lo fa sembrare goffissimo.
Nel frattempo gli avversari segnano, così ci deve pensare di nuovo Messi, che salta tutti e si prende un rigore e poi fa una cosa molto da Barcellona: lascia tirare il rigore al compagno in difficoltà, cioè Ibrahimovic. Lo svedese segna, e quasi non esulta ma sembra fare un gesto di imprecazione, e tutti ma proprio tutti lo vanno ad abbracciare: sembra una cosa bella, ma forse lui l’ha vissuta come una grande umiliazione personale.
Perché a lui era proprio questo mondo Barça a non piacere, l’umiltà dei campioni, la loro capacità di far parte di un gruppo senza essere superuomini: “Messi, Xavi, Iniesta e tutta la combriccola sembravano tanti scolaretti. I migliori giocatori del mondo stavano lì a inchinarsi e io non ci capivo niente” . In quella strana stagione catalana, magari Ibra ha capito davvero la sua natura.
Kung-Fu Ibra
di Oscar Svensson
La carriera di Ibrahimovic non può essere riassunta in un susseguirsi di periodi, piuttosto in un insieme di atteggiamenti, colpi e movimenti. Ibra si spande sopra così tanti periodi calcistici e così tante squadre e campionati diversi che diventa impossibile limitarlo a uno solo e specifico. È più semplice invece associarlo a certi gesti tecnici, e in particolare a una categoria di gol che appartiene solo a lui: i gol segnati con tecniche di calcio da kung-fu, la rappresentazione più precisa di quell’idea di eleganza violenta che Ibra incarna. Cento chili che possono piegarsi in ogni modo concepibile.
Il miglior giornalista sportivo svedese, che ha seguito Ibrahimovic dall’inizio della carriera, e che scrisse il primo libro su di lui, paragonando Ibrahimovic a Eriksen ha coniato quella che per me è la descrizione perfetta: «Per entrare una porta serrata Eriksen scassina la serratura; Ibrahimovic invece si fa strada a forza verso la porta e la tira giù».
Ecco, quei gol in cui sembra picchiare la palla con un calcio volante sono una buona rappresentazione di quest’attitudine: violenti e diretti, ma soprattutto pragmatici.
Prendere il controllo di ogni situazione
Di Federico Aqué
Ibra al Milan nell’estate del 2010 è la sublimazione dell’idea che abbiamo di lui: il talento che sposta gli equilibri da solo, che basta a sé stesso tanto da scappare da una delle migliori squadre della storia (quel Barcellona di Guardiola) per rianimarne una in declino, schiacciata da anni di dominio dei cugini nerazzurri. Quando Ibra torna in Italia l’Inter ha appena toccato il punto più alto della sua storia con la conquista del triplete; il Milan, invece, ha chiuso al terzo posto e non ha ancora rimpiazzato la sua stella, Kaká, venduta al Real Madrid un anno prima. Ibra riempie quel vuoto e ribalta i rapporti di forza con l’Inter, interrompendo un dominio in campionato durato 5 anni.
Specie nei primi mesi, quando Massimiliano Allegri è ancora alla ricerca di un assetto stabile, il Milan vince le partite aggrappandosi letteralmente a Ibra. Il gol segnato alla quinta giornata contro il Genoa è la rappresentazione fisica di questa immagine. L’idea che bastasse soltanto passargli il pallone, non importa quanto pulito o facile da gestire, per cambiare le sorti di una partita si materializza sul campo quando Pirlo stoppa la palla prima del cerchio di centrocampo dopo un duello aereo vinto da Thiago Silva e affetta l’aria in direzione Ibra con uno degli ultimi lanci à la Pirlo della sua carriera milanista.
La palla è lunga e a chiudere Ibra ci sono due difensori del Genoa: Ranocchia e Dainelli, due giganti oltre il metro e 90 che lo stringono da entrambi i lati e riducono al minimo il tempo e lo spazio per qualsiasi tipo di giocata. È una situazione di assoluto controllo per la difesa: due contro uno con l’attaccante, con il difensore più vicino alla porta in vantaggio sulla palla. E invece succede che Ibra anticipi l’intervento di Dainelli allungando la gamba destra dopo il rimbalzo quando il pallone è ancora molto alto, e con la punta del piede indirizzi la palla con la forza necessaria a scavalcare in pallonetto Eduardo.
Un pallonetto con la punta del piede dal limite dell’area, calcolando la traiettoria del lancio e tenendo d’occhio allo stesso tempo la posizione del portiere, mentre due difensori fisicamente molto forti lo chiudono da entrambi i lati: sono prodigi di questo tipo ad aver costruito il nostro immaginario di Ibra.
Ibracadabra
di Fabrizio Gabrielli
Come tutti quei tifosi abbastanza sfortunati da doversi scontrare contro un Ibranel pienodella scintillanza ho spesso sofferto della sua inspiegabile supremazia: non si può provare allo stesso tempo, senza la perversione connaturata al fascino del male, stima e odio. Per godere appieno dell’esperienza estetica contrastante che suscita Ibra e perché questa mia descrizione sia un atto intellettualmente coerente, ho bisogno del distacco necessario: per questo ho scelto la partita di Champions League giocata con la maglia del PSG contro l’Anderlecht, a Bruxelles nel 2012. Che poi è anche la partita che Ibrahimovic stesso ha scelto come suo “Magic Moment” nella serie omonimo del canale YouTube della Uefa.
Tra i soprannomi di Zlatan, il mio prediletto è sempre stato "Ibracadabra": riassume perfettamente il carattere magico in cui il suo potere si materializza nel contesto Partita-di-Calcio, soverchiante come se fosse la Statua della Libertà che David Copperfield ha fatto scomparire qualche anno fa.
Quel giorno Zlatan segna quattro delle cinque reti dei parigini, in un’escalation di irripetibilità. La prima è una rete normale per un attaccante con senso della posizione, un tap-in ravvicinato. Simile al secondo e al quarto gol, in cui Ibra decide di non capitalizzare i movimenti con i quali si lascia la linea difensiva biancomalva alle spalle, come un gioco di prestidigitazione, appunto, così palesemente umilianti, con conclusioni di potenza (probabilmente i pali si sarebbero staccati da terra e il risultato finale sarebbe stato odioso): invece sceglie un colpo di tacco nel secondo gol, e una traiettoria da biliardo nel quarto.
Ma è il terzo gol quello che restituisce maggiormente l’incomparabilità di Zlatan: quando il pallone viene respinto dai difensori lui si trova sulla trequarti, dietro anche alla coppia di mediani: quando comincia a correre incontro alla sfera è come se si aprisse uno squarcio dimensionale, un buco nero che anela solo al big bang che si scatenerà quando il cuoio di scarpe e sfera diventerà un tutt’uno luminescente.
In narrativa, diceva Flannery O’Connor, due più due fa sempre più di quattro, e lo stesso vale per la narrativa calcistica: la magia di Ibra non è nella malia in virtù della quale anche i tifosi dell’Anderlecht si trovano ad applaudirlo, o almeno non solo. Credo si nasconda, piuttosto, in quel qualcosa in più che Zlatan, Ibracadabra, aggiunge ai suoi momenti magici, quei momenti in cui prende un 2, lo somma a un 2, e il risultato è maggiore di 4.
L’improbabilità di Ibra
di Matteo Gatto
Prendete la popolazione mondiale, circa sette miliardi e mezzo di esseri umani, e operate una selezione immaginaria chiedendovi: a) quanti di loro sono in grado di arrivare lì con la gamba? b) quanti, tra questi, hanno la coordinazione per arrivarci proprio mentre la palla è lì?
Vi resta davanti uno sparuto gruppetto di atleti eccezionali. Adesso c) eliminate tutti quelli che non hanno la sensibilità per mandare il pallone in quell’angolino. Resta qualcuno, oltre a Ibra? La risposta è no. Sette miliardi e mezzo di persone, e Ibra è l’unico.
Ma mettiamo che non lo sia. Mettiamo che sul pianeta ci siano sessanta miliardi di persone, otto volte la popolazione attuale, e che esistano quindi non una ma otto persone in grado di eseguire quel gesto. Chiedetevi: d) quanti di loro hanno la fantasia necessaria a immaginarselo? Molto probabilmente, solo Ibrahimovic. È un ragionamento per assurdo e ha una conclusione altrettanto assurda, ma è il modo migliore che ho trovato per provare a dare un’idea del doppio livello di unicità di Zlatan: non solo è unico, ma sarebbe unico anche in un contesto molto più ampio. In un certo senso, la sua esistenza è stata il verificarsi di un evento piuttosto improbabile.
Questo gol è un gesto indescrivibile. Non si è sviluppato un vocabolario per descriverlo perché non è mai stato necessario: le cose che appartengono a questa categoria sono troppo rare e sempre e solo sue. Ma in questo “gesto” (per il quale, data la sopraggiunta esigenza di dargli almeno qui un nome, scelgo “tacco-cielo”o “skyheel”, prendendo spunto dal cestistico gancio-cielo/skyhook di Kareem Abdul-Jabbar) si può notare un’altra cosa ancora: al contrario di altri skyheel, come ad esempio quello contro l’Italia del 2004, questo è senza avversari intorno.
E ciò significa che l’altezza e la stazza di Ibra non hanno niente a che vedere con la sua capacità di fare degli skyheel. Certo, gli hanno consentito di farli in partita e ad altissimo livello. Ma gli skyheel non sono un modo di aver la meglio su un difensore, sono un colpo esclusivo, tutto suo, che lui esegue perché può, perché lo ha tra le opzioni disponibili, e che in teoria potrebbe essere replicabile anche da un brasiliano di un metro e sessantacinque cresciuto a calcio e capoeira. Solo che questo brasiliano al momento non si è palesato e, per quanto sbalorditivo, l’unico realmente in grado rimane uno svedese di un metro e novantacinque.
Un colpo unico in un corpo unico. E ci sarebbe da parlare della mente, ma di quella diremo l’anno prossimo, quando Ibra sarà di nuovo in campo, in piena salute, a manifestare la sua improbabile unicità dopo aver sbriciolato i pronostici e i timori di quasi tutti noialtri sette miliardi e mezzo.