Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La Seconda Guerra Fredda
10 set 2015
Dalla diplomazia del ping-pong a quella del calcio. Storia del conflitto Cina-USA su prato verde.
(articolo)
16 min
Dark mode
(ON)

Agli albori degli anni ’70 la Cina rappresentava, per gli Stati Uniti e il resto del mondo occidentale, una sorta di enorme Corea del Nord: un paese dalla povertà estrema, sostanzialmente inaccessibile e ideologicamente ostile.

Nell’aprile del 1971 si sono tenuti i Mondiali di ping-pong a Nagoya, Giappone. Glenn Cowan, membro della Nazionale americana, si stava allenando con l’atleta cinese Liang Geliang, ma quando l'allenamento è finito Cowan si è accorto che il pullman con i suoi compagni di Nazionale non l’ha aspettato. Cowan non sapeva bene cosa fare quando la Nazionale cinese, che stava uscendo proprio in quel momento dal centro di allenamento, inaspettatamente lo ha invitato a salire sul suo pullman. In mancanza d’alternative ha accettato. A bordo stava chiacchierando con l’interprete della squadra, quando a un certo punto Zhuang Zedong, allora il più grande giocatore di ping-pong cinese, si è presentato per offrirgli un ritratto su seta dei monti Huangshan.

All’arrivo, i due, sono stati accolti da una folla di fotografi e giornalisti. Cowan, non potendo ricambiare il regalo sull’autobus, è andato a comprare una maglietta con il simbolo della pace e la scritta “Let it be”: la foto di quel bizzarro scambio è finita su tutti i giornali.

A causa della risonanza mediatica di quell’evento, Pechino si è convinta a invitare la Nazionale americana in Cina: nove giocatori che nell'aprile del 1971 sarebbero diventati i primi americani a mettere piede nel paese comunista da quando Mao Zedong aveva ufficialmente proclamato la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949. Pochi mesi più tardi, nel febbraio del 1972, Richard Nixon realizza la sua prima storica visita ufficiale in Cina.

Nonostante l’apparente spontaneità, quell’evento fu scientificamente sfruttato dalle due amministrazioni per i propri fini: gli Stati Uniti cercavano nella Cina una sponda per uscire dalla disastrosa guerra in Vietnam e, nel lungo periodo, un silenzioso ma potente alleato nella loro opera d’accerchiamento all’Unione Sovietica; per Pechino, invece, quelle partite di ping-pong rappresentavano un messaggio di indipendenza nei confronti della Russia, con la quale le relazioni erano tese da ormai una decina d’anni, segnando l’uscita dal decennale isolamento e il primo passo verso il ritorno tra le grandi potenze. Quattro anni dopo la visita di Nixon, Mao Zedong morì e il suo successore, Deng Xiaoping, avviò quel processo di liberalizzazione dell’economia che trasformò in pochi anni la Cina in un paese semi-capitalista.

I sette giorni che cambiarono il mondo, come li definì Nixon durante la sua visita in Cina, coniarono anche il termine ping-pong diplomacy che da quel momento in poi rese evidente l’importanza dello sport in un mondo che era sempre meno disposto a utilizzare i carri armati.

Football diplomacy

E la ping-pong diplomacy cambiò davvero il mondo. A più di quarant’anni da quell’avvenimento, la Cina è passata da essere un cosiddetto paese in via di sviluppo a diventare la seconda economia più grande al mondo, nonché probabilmente la potenza globale più temuta in assoluto. Un ritorno sul palco principale che Pechino attendeva da quasi due secoli, ma che ha posto la Cina in competizione con gli altri attori globali. Con gli storici rivali russi, ovviamente, ma soprattutto con i “vecchi amici” americani.

Una competizione non esplicitamente annunciata, ma comunque tangibile (qualcuno parla addirittura di nuova guerra fredda), che emerge ai nostri occhi solo a volte, come una bottiglia che galleggia sulla superficie del mare: dai cyber-conflitti alle dispute territoriali delegate, dalla ricerca spaziale alla situazione tibetana.

Tra tutti i campi su cui si gioca la partita sino-americana, però, non c’è più quello verde da ping-pong. Il gioco, inventato da un comunista britannico convinto che potesse diffondere l’ideologia marxista in tutto il mondo perché permetteva agli operai di giocare direttamente in fabbrica, era adatto a rappresentare la sfida ideologica tra i due poli in tempo di guerra fredda. Ma quello che era considerato da Mao Zedong come “l’ordigno nucleare spirituale” della Cina, è diventato obsoleto nel mondo globalizzato del XXI secolo.

Glenn Cowan e Zhuang Zedong non si sono più rincontrati dopo il 1971. Cowan è morto in depressione nell’aprile del 2004. Zedong è andato a visitare la sua tomba nel settembre del 2007 durante una visita commemorativa.

Oggi la partita si è spostata su un altro campo verde, questa volta però molto più grande e ricoperto d’erba. Non c’è più bisogno di affermare un modello valoriale diverso, oggi che anche Pechino ha abbracciato quasi del tutto il capitalismo. Il calcio rappresenta il “modello della società individualistica”, come intuì Gramsci quasi un secolo fa, la piattaforma ideologica comune su cui Cina e Stati Uniti si sfidano.

Le origini della sfida

L'anno chiave per il destino calcistico di entrambi i paesi è il 1994. In quell’anno in Cina viene fondato il primo campionato nazionale moderno su modello europeo, la Chinese Jia-A League, mentre i Mondiali di calcio per la prima volta si svolgono negli Stati Uniti, un paese che fino ad allora viveva esclusivamente di football, baseball, hockey e basket.

È nel 1994 che vengono gettati i semi della sfida odierna: con la Chinese Jia-A League, infatti, la Federazione cinese permette per la prima volta che i club vengano posseduti da aziende; ed è con i Mondiali di calcio americani che gli Stati Uniti si decidono finalmente ad avere un campionato nazionale di livello professionistico, dopo il fallimento della NASL. Così, nel 1996 prende il via la Major League Soccer (MLS).

In realtà, all’inizio i due paesi non sembrano destinati a diventare due superpotenze dentro al rettangolo verde. La Chinese Jia-A League non supererà mai lo scoglio del dilettantismo venendo investita, tra l’altro, da una lunga trafila di scandali legati alle scommesse e alla corruzione. Anche la MLS, dopo l’euforia iniziale, sembra destinata al fallimento, con l’interesse del pubblico che scema gradualmente dopo i Mondiali del 1994. In questo caso i problemi risiedono nella mancanza di strutture adeguate (il primo stadio di calcio verrà inaugurato solo nel 1999) e nell’iniziale tentativo di “americanizzare” il gioco modificando le regole ufficiali (come la quarta sostituzione per i portieri e gli shootout in caso di pareggio).

Il che ha portato a situazioni imbarazzanti, tipo quella del luglio 2003. Si giocava MetroStars contro DC: la partita era finita 2-2 dopo i tempi regolamentari e in quei casi le vecchie regole della MLS prevedevano una sorta di mini terzo tempo in cui si applicava la regola del golden gol. Le due squadre avevano finito le sostituzioni, la quarta era possibile solo per cambiare i portieri. A quel punto l’allenatore dei MetroStars, Bob Bradley, ha un’idea geniale: scambia di posizione Mark Lisi, centrocampista, e Tim Howard. Subito dopo sostituisce Lisi con Eddie Gaven, un altro centrocampista, per poi rimettere di nuovo Howard in porta. Dopo nove minuti Gaven segna il gol vittoria.

Forse il punto più basso della MLS prima dell’adozione delle regole ufficiali.

La svolta avviene solo una decina d’anni più tardi, intorno al 2004. La propulsione arrivò ancora una volta dalle Nazionali. Sia la Cina che gli Stati Uniti, infatti, ottennero risultati storici ai Mondiali nippo-coreani del 2002: la prima approdando per la prima volta nella sua storia alla fase finale, i secondi ottenendo il miglior piazzamento nella competizione dal 1930. Furono anche quei risultati a convincere due paesi dalla tradizione calcistica quasi nulla di poter giocare un ruolo da protagonisti nel prossimo futuro.

Nel 2004 nasce la Chinese Super League (CSL), il secondo tentativo di Pechino di darsi un campionato di calcio nazionale competitivo a livello globale. L’anno successivo anche la MLS decide di fare il salto di qualità adottando finalmente le regole ufficiali scritte dall’IFAB, l’organo FIFA per il regolamento.

Finalmente l’esperimento riesce. Gli investimenti per l’acquisto di nuovi giocatori e per la costruzione di nuove strutture iniziano a fluire all’interno dei due campionati, facendo crescere l’interesse e le sponsorship intorno al fenomeno. In Cina, dalla nascita della CSL, vengono spesi per il solo mercato quasi 250 milioni di euro. Nel 2011 il terzo giocatore più pagato al mondo dopo Cristiano Ronaldo e Messi si chiama Dario Conca e gioca nel Guangzhou Evergrande. Nel 2013 il Guangzhou ha vinto la AFC Champions League (la Champions League Asiatica), prima squadra cinese a farlo nel nuovo formato dopo il successo del Liaoning nel 1990. Nel Mondiale per club ha poi sconfitto la vincitrice africana (contro i pronostici) perdendo solo in semifinale dal Bayern 3-0.

Nella sessione invernale di mercato della stagione 2014/15 la CSL spende più di Serie A, Liga e Bundesliga, risultando seconda solo alla Premier. Le sponsorizzazioni raddoppiano: si passa così da Siemens che nel 2004 forniva 8 milioni l’anno a ING che oggi paga 18 milioni l’anno.

Il più importante derby di Cina, Guangzhou Evergrande – Guangzhou R&F, in una delle sue espressioni più emozionanti degli ultimi anni. Lippi contro Eriksson, Gilardino segna un gol e fornisce un assist.

La MLS, però, non è da meno. Nel 2007 viene introdotta la designated players rule che permette ai club statunitensi di acquistare fino a tre giocatori senza le restrizioni di budget imposte dal salary cap (per la verità ancora abbastanza basso: l’ultimo anno si è fermato a quota 3,5 milioni di dollari). Negli Stati Uniti arrivano i vari Beckham, Keane, Henry, Gerrard, Lampard, Villa, Kaká e i contratti per i diritti televisivi si gonfiano: si passa dai 184 milioni di dollari del settennio 2007-2014 ai 630 di quello 2015-2022.

Aumentano così anche i tifosi allo stadio. In Cina il numero medio di spettatori passa dai circa 11mila del 2004 agli attuali 19mila. Più o meno la stessa cifra raggiunta anche dalla MLS nella passata stagione, superando così il basket e l’hockey su ghiaccio. Un numero ormai pericolosamente vicino a quella della Serie A, che l’anno scorso ha fatto registrare una media di circa 22mila spettatori a partita.

Sogni a confronto

Ma la crescita economica dei rispettivi campionati è solo una delle facce della competizione sino-americana. L’altra è lo sviluppo dell’intero movimento nazionale. Così come per la ping-pong diplomacy, anche nella football diplomacy c’è meno spontaneità di quanto sembri.

In Cina la propulsione arriva direttamente dal segretario generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping, a quanto pare un grande appassionato di calcio. L’intero programma politico di Jinping si basa sull’affermazione del cosiddetto sogno cinese. Quest’ultimo non mira a dare a tutti l’astratta possibilità di poter soddisfare le proprie ambizioni personali, come quello americano, quanto di ritornare alla grandezza della nazione tramite il sacrificio individuale e collettivo. La novità introdotta da Jinping è che il pallone ne fa parte in maniera importante.

Gli obiettivi dichiarati del segretario del PCC sono tre: qualificarsi, ospitare e vincere la Coppa del Mondo. Obiettivi più che ambiziosi, per i quali sono stati avviati programmi imponenti. Nel novembre del 2014, il ministero dell’educazione di Pechino ha annunciato che il calcio sarebbe diventato materia obbligatoria nel curriculum scolastico. Il governo, inoltre, si impegnerà nell’installazione di campi e centri d’allenamento in oltre 20mila scuole entro il 2017. Quest’estate la Cina ha alzato ulteriormente l’asticella: il ministero dell’educazione ha annunciato di voler intensificare l’organizzazione di tornei e campionati a tutti i livelli scolastici e universitari e che il sistema di valutazione degli studenti includerà anche i risultati in allenamento. Il numero dei centri d’allenamento, inoltre, dovrà raggiungere quota 50mila entro il 2025.

La BBC dentro la più grande accademia calcistica del mondo, aperta in Cina dal Guangzhou Evergrande col supporto del governo: dentro ci sono 50 campi distribuiti su 167 acri.

Il Comitato per le Riforme, inoltre, ha reso note le misure di un piano, approvato nel febbraio di quest’anno, volto a togliere ogni controllo governativo sulla Chinese Football Association, la federcalcio cinese, diventando così la prima federazione sportiva in assoluto a non essere gestita dal partito. Nel piano si legge che «rivitalizzare il calcio è necessario per rendere la Cina una potenza sportiva e per soddisfare la sincera speranza del popolo».

Gli Stati Uniti, d’altra parte, senza i trionfalismi della pluriennale pianificazione cinese, si erano mossi ancora prima. Nel 2007 la federazione americana ha fuso i campionati cadetti di MLS, NASL e USL (sostanzialmente la Serie A, B e C degli Stati Uniti) fondando la US Soccer Development Academy, in modo da renderli più competitivi. La riforma del settore giovanile (sia maschile che femminile) è stata ulteriormente rafforzata nel dicembre del 2014 prevedendo l’introduzione delle squadre Under-12 a partire dalla stagione 2016/17, l’aumento dei fondi per le borse di studio e l’introduzione di un organo indipendente esterno per il controllo degli standard qualitativi.

Le riforme sono meno scontate di quanto sembri. Con queste scelte, infatti, gli States stanno lentamente abbandonando il tanto amato sistema di selezione giovanile dei college (ancora in voga in diversi sport, a partire dal basket) per adeguarsi agli standard internazionali.

Questa “corsa agli armamenti” sta producendo risultati in qualche modo già visibili oggi. Stati Uniti e (in misura molto minore) Cina, infatti, dominano già nel calcio femminile, dove possono ancora godere della quasi assenza di concorrenza da parte dei paesi europei e sudamericani. La Nazionale a stelle e strisce ha vinto tre dei sette Mondiali disputati finora (raccogliendo nelle restanti edizioni un secondo e tre terzi posti). La Cina, invece, la coppa l’ha solo sfiorata, perdendo la finale ai rigori nel 1999 proprio contro gli Stati Uniti.

Il racconto in immagini di quella partita.

Le mani sulla coppa

Per quanto il calcio femminile sia un fenomeno in crescita, è chiaro che questi risultati non possano che rappresentare un magro antipasto per i sogni di gloria sino-americani. L’obiettivo rimane la Coppa del Mondo maschile, ovvero, per dirla con Xi Jinping: ospitarla, parteciparvi e vincerla. I risultati delle Nazionali e, ancora di più, l’eventuale organizzazione dell’evento rappresentano per Cina e Stati Uniti un crocevia imperdibile per far maturare definitivamente i propri movimenti calcistici. Ed è qui che le traiettorie dei due paesi, inevitabilmente, si scontrano intrecciandosi in quel vaso di Pandora chiamato FIFA.

Le ambizioni di Washington sono note ormai da tempo. Gli Stati Uniti hanno perso la corsa con il Qatar per l’organizzazione dei Mondiali del 2022, ma la vittoria di Doha è stata messa in discussione dall’enorme filone d’indagini, partito proprio dagli States, che ha coinvolto quasi tutti i vertici della FIFA.

Su quelle di Pechino, invece, si sa molto di meno. Un primo passo in questo senso è stato fatto nel febbraio di quest’anno, quando il super-gruppo sportivo cinese Dalian Wanda ha acquistato Infront per una cifra di poco superiore al miliardo di euro. Il gruppo Dalian Wanda, pur essendo privato, è strettamente legato al governo centrale. Nel 2011 il suo proprietario, Wang Jianlin (l’uomo più ricco di Cina), dichiarò che Liu Yandong, la vicepremier cinese, gli aveva chiesto di aiutarla nell’incarico di ricostruire il calcio cinese.

Acquisire Infront, società svizzera che gestisce la vendita dei diritti televisivi delle competizioni sportive (inclusa la Coppa del mondo, ovviamente) gestita da Philippe Blatter (nipote dell’ormai ex presidente della FIFA Sepp), garantisce alla Cina un rapporto privilegiato con la FIFA. Il giorno prima della temporanea rielezione di Blatter, Wang si è incontrato con il presidente e il segretario generale della FIFA, Valcke. Nel comunicato emesso dal gruppo Wanda per l’occasione si legge che «Blatter ha promesso un forte supporto da parte sua e della FIFA per lo sviluppo del calcio in Cina».

L’intervento degli Stati Uniti, con le conseguenti dimissioni di Blatter, ha però nuovamente rimesso in discussione la partita, che adesso si gioca sull’elezione del prossimo presidente FIFA. I due candidati favoriti a raccogliere l’eredità di Blatter sono Michel Platini e l’outsider sudcoreano Chung Mong-joon.

Sono loro due che avranno, in caso di vittoria, la prima voce in capitolo riguardo a una serie di questioni che saranno fondamentali per decidere gli equilibri della nuova guerra fredda sino-americana. La prima sarà l’eventuale riassegnazione dei Mondiali del 2022. Un’eventualità improbabile, per la verità, che diverrebbe impossibile in caso di vittoria di Platini. Il francese fu l’unico membro del Comitato Esecutivo della FIFA a dichiarare alla stampa il suo voto per Doha nel 2010 e fu anche uno degli uomini chiave per garantire alla famiglia reale qatariota la proprietà del PSG. Con Chung Mong-joon, che si presenta come l’uomo nuovo in grado di rivoluzionare la FIFA, invece le probabilità salirebbero.

In questa intervista Platini dichiara che la UEFA non avrebbe nessun problema a far giocare i Mondiali in inverno. Da notare lo stupore dell’intervistatore.

La volontà di riformare il massimo organo di amministrazione del calcio, tra l’altro, è una delle condizioni poste dagli Stati Uniti per continuare a partecipare alla corsa. Il presidente della federazione americana, infatti, ha fatto sapere che il paese a stelle e strisce non ripresenterà la propria candidatura per i Mondiali del 2026 se l’intero processo d’assegnazione non sarà reso più trasparente e corretto. Anche in questo caso, la candidatura di Chung Mong-joon sembra essere più affidabile, almeno sulla carta. Forse è anche per questo che il sudcoreano, nel suo recente viaggio tra Cina e Stati Uniti, ha prima incassato il supporto della confederazione nordamericana (CONCACAF) per poi accusare quella asiatica (AFC) di fare forti pressioni sulle federazioni per votare Platini.

Non bisogna dimenticare, poi, che Platini ha già reso nota la sua volontà di aumentare il numero delle squadre partecipanti al Mondiale da 32 a 40. Delle nuove otto, due andrebbero alla confederazione asiatica. La riforma renderebbe ovviamente più agevole la qualificazione della Cina alla fase finale dei prossimi Mondiali.

Un’altra variabile che potrebbe intervenire riguarda l’assegnazione delle prossime edizioni della Coppa del Mondo. Attualmente, infatti, le regole FIFA prevedono che non si possano tenere due edizioni consecutive in due paesi che fanno parte della stessa confederazione. Una norma che potrebbe interessare sia gli Stati Uniti, che dovrebbero battere la forte candidatura del Canada per i Mondiali del 2026 per non veder tramontare definitivamente la possibilità di organizzarli, che la Cina, che invece dovrebbe saltare l’edizione del 2026 per competere poi con l’affascinante candidatura di Argentina e Uruguay per l’edizione del centenario del 2030.

Se queste regole non dovessero cambiare i due paesi si potrebbero ritrovare a competere direttamente per l’organizzazione dei Mondiali del 2034. Per quel giorno potremmo sapere quale dei due sogni, tra quello cinese e quello americano, avrà prevalso sull’altro. E se una partita di calcio vale quanto una di ping-pong.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura